23.12.07

Zuppa di ginocchia di mucca

Sono sempre stato un appassionato di piatti preparati utilizzando tagli di carne molto poco nobili, pietanze povere ma saporitissime. Questo piatto senegalese ha quindi incontrato la mia simpatia, anche perché va cotto per ore ed ore intiere. Come piace a me.


Ingredienti: (x 4 pers.)

  • 3 o 4 piedini di manzo o vitello
  • 4 porri
  • 1 cipolla
  • Peperoncino
  • Dado di carne
  • Sale e pepe
Esecuzione:

Un'avvertenza: si tratta di una ricetta africana e quindi lo scopo, oltre che essere buona, sarebbe quello di estrarre dalle ginocchia della mucca quante più sostanze nutritive possibile. Non è adatta a ragazze in dieta, insomma, alle quale magari è più consigliabile fare direttamente un viaggio a piedi per l'Africa.

Cominciamo: non so dove Big, il simpatico autore del piatto da cui questa ricetta è stata estrapolata, si procuri i piedini di manzo. Immagino che frequentando un poco quelle macellerie islamiche che fanno tanta paura sarà un gioco da ragazzi. Forse anche il vostro macellaio Marcello ve li può tenere da parte, guardandovi un po' storto ("a che le servono, signora?")... Il certo è che non costeranno un patrimonio.

La preparazione è di africana ed austera semplicità, ve la esporrò quindi calandomi un poco nella parte.

Quando il sole feroce batte a picco sulla savana, la polvere riarsa soffoca i sospiri dei cacciatori, e la gazzella si abbevera ignara della leonessa... insomma di pomeriggio date una sciacquata in acqua corrente ai piedini e metteteli in una casseruola piena d'acqua per metà. L'acqua, ovviamente, l'avrete presa dal pozzo lontano almeno 20 kilometri, rigorosamente a piedi scalzi.

Tagliate a fettine i porri del vostro orticello, che quest'anno, a causa della carestia, delle cavallette, dei predoni, insomma di un serie di sfighe tipiche del continente nero saranno solo 4. Unite la cipolla anch'essa a fettine, poco sale e pepe, il dado (il dado in Africa?!?!) e il peperoncino (si, vabbè, più che in Africa siamo in Calabria...) coprite tutto e basta. Come basta? Sì, basta: bisogna aspettare che le cartilagini si sciolgano per diventare parte fondante del brodone verdino, grasso e saporito che si mangerà a cena, tutti quanti attorno al fuoco, tra balli tribali e amenità varie.

Ci vorranno almeno 3 o 4 ore, ma anche di più a seconda di quanto del "ginocchio" volete che diventi "zuppa". Io consiglio un pomeriggio intiero, 7 ore nette, per un risultato veramente ottimale... ma so che nessuno di voi, mai, passa il pomeriggio in casa a cucinare. Che vi devo dire? 3 ore in pentola a pressione? In Africa la pentola a pressione? Sia mai!
Se dovesse stringere troppo allungate con mestoli di brodo di dado, usanza diffusa nella costa sud del Senegal. Al momento di servire in tavola spolpare le ossa con gran disgusto dei commensali e buttarle. Oppure, ancora meglio, si possono servire i piedini nel piatto e succhiarli con gran rumore, metodo ottimo per cene radical-chic.

E' un piatto decisamente corroborante, in pratica carne liquida... mhhhh.. il genere di cose che mi fa uscire pazzo. Non siete lontanti dal vero se pensate che sappia di carne in stufato. Solo che non c'è il vino, bandito da sempre nella cucina Africana! E non azzardatevi a mettercelo!!!

Un ringraziamento speciale allo Zio Dennis per avermi procurato la ricetta! ;)

Buon appetito!

13.12.07

Il cibo più disgustoso del mondo: l'aringa fermentata

Sebbene io sia, a detta di coloro che mi conoscono, decisamente poco schizzinoso in fatto di cibo e abbastanza audace nello sperimentare bizzarrie culinarie di ogni sorta, sono rimasto esterrefatto dal fetido, disgustoso, rivoltante lezzo sprigionato da una latta di aringhe fermentate, delicatessen del nord della Svezia che ebbi l'opportunità di assaggiare quest'estate proprio nel paese scandinavo.

Mi limito a dirvi che si tratta di aringhe del Baltico che, private della testa e aggiunte solo di un insignificante pizzico di sale, vengono messe a fermentare in latte fino a che la pressione interna, creata dai miasmi della fermentazione, non deforma il recipiente al punto da renderlo oblungo (roba del genere da noi sarebbe illegale, e infatti è vietato trasportare tali latte su molti aerei di linea... questo la dice lunga). Andrebbero poi "gustate" all'aperto (la puzza renderebbe per sempre invivibile qualsiasi luogo chiuso) accompagnate con una sorta di piadina locale, cipolle rosse crude, patate novelle e panna acida. L'analisi organolettica? Odore di uovo marcio, pattumiera al sole d'agosto, carogna di nutria, alito di cane randagio, fogna di Calcutta, roba da conati di vomito. Eppure l'assaggiai.

Se ho stuzzicato la vostra curiosità, sul blog de L'Uomo Integrato, mio compagno di disavventura in quel frangente, potete trovare un dettagliato ed esauriente reportage di quella orrenda cena a base di surstromming (nome indigeno di tale atrocità culinaria). Da parte mia, aggiungerò solo che per settimane intere dopo avere mangiato quella prelibatezza il solo ricordo dell'odore che aveva il mio alito dopo un paio di bocconi di aringhe era sufficente a provocarmi nausea e a farmi perdere completamente l'appetito. E dire che io, di appetito, di solito ne ho parecchio.

Buona lettura.

Polenta a pressione della nonna Serena

In questo periodo d ingiustificati festeggiamenti, dalle mie parti si usa gozzovigliare con ampie libagioni di cotechino, lenticchie e polenta. Sulla cottura dei primi due non ho particolari segreti da svelare, ma conosco un bizzarro e comodissimo metodo di fare la polenta tramandatomi da mia nonna Serena, capocuoca del ristorante di famiglia per parecchi decenni, a cui vanno affettuosissimi ringraziamenti.
Si tratta di cucinarla nella pentola a pressione.

Ingredienti: (x 4 pers.)

  • Farina di mais bramata o "bergamasca" 500 gr
  • acqua 2 l
  • sale grosso
Esecuzione:

Mettete l'acqua nella pentola a pressione a fuoco alto. Quando sobbolle, salatela, e quando il sale si è sciolto, aggiungete mezzo bicchiere di acqua fredda per fermare il bollore di un paio di minuti. Versate la farina a pioggia mescolando continuamente affinché non si formino grumi. Quando la polenta fa le prime "bolle", chiudete ermeticamente, stando attenti a non scottarvi con i lapilli gialli (vi consiglio di fare in fretta).

Appena udite il caratteristico fischio abbassate la fiamma, e appena olfate odore di polenta bruciaticcia (ma proprio subito!) spegnete il fuoco ed aprite la valvola. Saranno passati dai 5 ai 15 minuti e non, come vuole il metodo ortodosso, 45 minuti di continuo, sempre più ostico e duro rimestolìo. Una bella differenza, eh? Mia nonna è una che ci sa fare.

Rimestate ancora per un paio di minuti, poi rovesciate su una spianatoia. Vi assicuro che è identica alla polenta tradizionale, in tutto e per tutto.

P.S: E' più facile, ma non scontato, che venga bruciaticcio il fondo della pentola con questo sistema, ma del resto a me veniva bruciaticcio anche con tutti gli altri metodi. Il mio consiglio è di tenerla tutta la notte in ammollo in acqua calda e il giorno dopo, se serve, lavorare un po' di paglietta.

Buon appetito e... grazie nonna!

10.12.07

Spezzatino dello Scienzato Pazzo

Trattasi di uno spezzatino che ho ideato aggiungendo ingredienti quasi a casaccio, soprattutto pescando tra gli alcolici, fidandomi del mio istinto. Il risultato è stato, senza falsa modestia, davvero sorprendente.


Ingredienti: (x 4 cavie)

  • 500 Kg. di polpa di manzo
  • Una cipolla
  • Uno spicchio d'aglio
  • Un peperoncino
  • Olio extravergine d'oliva
  • Passata di pomodoro
  • Paprika dolce
  • Un cucchiaio di senape forte di Digione
  • Mezzo bicchiere di porto rosso
  • Un bicchierino di grappa, brandy o cognac
  • Un bicchiere di vino rosso frizzante dolce (bonarda, lambrusco)
  • Sale e pepe
  • Se vi viene in mente altro... potete mettercelo
Esecuzione:

Fersare in cazzeruolen di koccio pikkolo olio di olifen, aglio skiacciaten, zemi di peperonzinen und cipolla tagliata pezzetinen, zi? Zoffriggere und acciuncere karne di mukka anke kvezta tagliata pezzettinen, zi? Poi kvando karne è kolore ke zempra un poko kotten tu verza pikkolo pikkiere di fino rozzo di Italia.
Fai asciukaren pene pene fino di Italia ke gvarda dentro pentola e non essere kvasi più, allora acciuncere passata di pomotoro anke kvezto belli pomotori di Italia.

Mettere in kvezto krosso pentolen tutte kose ke tu afere: porto, krappa, paprika, zenape, poi sale e pepe, miskiare und kvocere piano piano zu fuoken mit koperkien: attento tu acciuncere kvando serfe pikkolo meztolo ti broden, tutto kvezto per zwei oren.

Oppure: ze ciofane inezperto scienziato afere fretta, potere mettere tutto in pentola prezzionen e allora azpettare solo ein oren infece che zwei oren.

Zerfire mit polenta oppure cous cous.

Guten appetit, HAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHA!!!!

8.12.07

Intermezzo critico: Il fattaccio de "Lo Strapuntino"

Chi di voi si trovi, per caso o necessità, a passare per Milano e più precisamente per il quartiere Brera, e decidesse disgraziatamente di mangiare un boccone in una delle zone a più alto tasso di bufale della capitale morale, potrà allora, se animato di spirito masochistico, decidere di mortificare corpo spirito e fermarsi a mangiare al ristorante pizzeria "Lo Strapuntino" di Corso Garibaldi.

Vi avviso fin da ora che la sua recensione su questo blog deriva dal fatto che mai, in vita mia, sono stato servito così male in un locale, infatti la mostruosità di tale ristorante non è da imputarsi nel menù con tanti astuti richiami bi-lingue in piatti tipici milanesi; o nei prezzi, purtroppo nella media di quella zona che alcuni cerebrolesi osano chiamare "La Montmartre di Milano" (sic!); nè tantomeno nella qualità dei piatti, degni di alcuni studenti miei compagni di stanza tempo addietro ma niente più. L'orrore, qui, sta nel trattamento riservato ai clienti e, anzi, un preciso avvenimento io pensavo fosse giammai possibile: ma andiamo con ordine.

Dopo qualche esitazione e spinti dalla fame, io e la mia compagna entriamo. Siamo entrambi giovani, spigliati ma eleganti: quindi niente mi fa pensare che qualche cosa nella nostra persona potesse aver spinto il nostro cameriere a trattarci come pezzenti. Ci viene indicato un tavolo, leggiamo il menù, e cominciamo a notare che il nostro cameriere/carnefice, un cafone come pochi ne avevo visto e pochi (spero) ne vedrò, gioca a fare lo "gnorri", cioè ad ignorarci con disinvoltura, come evidentemente viene insegnato in qualche scuola alberghiera di Milano. Ma fin qui niente di scandaloso, mi pare.

Finalmente ordiniamo. Un primo, una pizza e vino rosso della casa. Probabilmente, a questo punto l'errore è stato nostro, perché la disgraziata scelta del vino in caraffa non possono farla che dei barboni fetenti, quindi da trattare come tali. Assodato questo, credo che nemmeno tale sofisma giustifichi appieno l'evento fatale che sta per incombere. Infatti, il nostro cameriere ci comunica che il vino "della casa" non è in caraffa, ma se vuole ci può portare una bottiglia, noi beviamo quanto vogliamo, dopodiché paghiamo solo il dovuto. Senza pensarci affatto accettiamo: dopotutto, a riflettere, sembra una soluzione interessante: una bottiglia é poi sempre e comunque una seppur piccola garanzia in più, no? Errato. Ecco il fataccio:

Arriva il cameriere e con aria disinvolta poggia una bottiglia sul nostro tavolo e si defila immantinente, senza degnarci di uno sguardo. Guardiamo la bottiglia: aperta. Chi di voi già griderebbe allo scandalo si trattenga. Mesciamo, innocentemente, il vino nei bicchieri e, mentre stiamo già per brindare con i calici a mezz'aria, notiamo in controluce qualche cosa galleggiare in essi. Pezzi di sughero? Fondiglio? Macché: ad un esame anche sommario si rivela essere un gruppetto di una mezza dozzina di moschini, o moscerini, morti stecchiti, che fanno pensare alla bottiglia come ad un enorme cimitero di insetti, e pongono vari e fondati dubbi sulla di lei provenienza, conservazione, e soprattutto contenuto.

Segnaliamo il fatto al cameriere aspettandoci, forse ingenuamente, mortificazioni, aria scandalizzata, promesse di sconti, pubblica ammenda: ma egli ritira la bottiglia senza scandalizzarsi, come dicendo: "mah, strano... sicuro non li abbiate messi voi"? E subitaneamente ce ne propina un'altra, diversa, questa volta chiusa (meno male! e ci voleva tanto?) e aperta al tavolo come si conviene, contente vero vino, e nel farlo ci dice, sicuro di sè: "Comunque anche l'altra l'avevo aperta subito... non capisco" Sì, sì, come no... ma ci faccia il piacere! Neanche la decenza di stare zitto. Fatto sta che se avessimo bevuto anche solo un goccio di tale bevanda avremmo potuto fargli una denuncia bella salata. Ma tant'è... sul momento non ci pensai: avevo fame.

Ma bisognerà aspettare un'altra mezz'ora prima che arrivino pizza e primo (con lo stesso, infernale cameriere che ogni tanto ci apostrofa, di sua iniziativa: "stanno arrivando, nè! calmi!": roba da fare venire i brividi). Consumiamo, ci alziamo, paghiamo ed usciamo disgustati e snervati.

Sulla via di casa mi prende il solito rimorso in questi casi: perché non mi sono alzato e ho gridato allo scandalo? Perché non me ne sono andato con disprezzo? Ma soprattutto perché non ho minacciato denuncie, mai meritate come in questo caso? La risposta è solo una: perché sono un coglione. Non lo fossi, mi sarei certo comportato in uno dei modi sopra elencati.

In ogni caso, spero almeno con questo post di avere fatto il mio dovere almeno nei confronti del popolo, affinché insieme possiamo costruire un mondo migliore, dove non ci sia il rischio che ti venga propinato del vino insaporito da insetti a macerare in infusione.

Prosit!

4.12.07

Sua Maestà il Fondo Bruno

Mentre scrivo questo post, nel mio umile forno stanno ormai da 4 ore rosolando circa due kili e mezzo di ossi, cartilagini, frattaglie, tessuti connettivi e pezzi irriconoscibili di animali non sempre bene identificabili, ma per lo più vitello, elemosinati a vari macellai del quartiere Bullona di Milano.
Prima della cottura, essi insultavano i sensi: spugnosi, viscidi, maleodoranti, orridi, suppuranti liquidi organici, decisamente ributtanti. Ma stasera, quando la transustanzazione alchemica sarà terminata, avrò tra le mani una mezza bottiglia di preziosissimo "fondo bruno", vero caposaldo della migliore cucina di sempre, pietra filosofale dell'alchimia culinaria senza il quale non esisterebbe la gastronomia come la conosciamo.
Vi riporto la ricetta, da me carpita da un cuoco professionista e naturalmente adeguata allo spirito del blog, di questa salsa magica eppure sì volgare, verbo di ogni bibbia culinaria, invitandovi a riflettere su come spesso le cose più deliziose partono da quello che noi, normalmente, troveremmo ripugnante senza esitazione.

Ingredienti: (x 1/2 lt. c.ca di salsa)

  • 1,5 kg. di ossi e cartilagini di vitello, tagliate a pezzi (chiedetelo, con cortesia, al macellaio)
  • una quantità a piacere di pezzi non edibili di animali a scelta, avanzi di carne, roba che dareste al cane (consiglio: potete cominciare fin da oggi ad accomularli nel freezer, ma evitate di dirlo agli eventuali conviventi dell'appartamento, così potranno prendervi per un serial killer)
  • 1 carota
  • 1 sedano
  • 1 cipolla
  • 1 filo d'olio extravergine d'oliva
  • qualche cucchiaio di farina
  • 1 bicchiere di vino bianco secco
  • concentrato di pomodoro
  • qualche spezia a piacere tra le seguenti: alloro, timo, maggiorana, origano, salvia
  • fecola di patate
  • qualche granello di pepe nero
Esecuzione:

Innanzitutto un'avvertimento: ne avrete per tutta la giornata. Quindi, scegliete magari una domenica piovosa, il che renderà anche la preparazione vagamente romantica.

Prendete tutti i vostri bei pezzi di animale e lavateli in acqua corrente, magari soffermandovi a cercare di indovinare che diamine di articolazione potrebbe mai essere quella, o quale indicibile bestia potrebbe mai avere nel suo corpo tanta materia spugnosa e gelatinosa, dopodichè immergete tutto quanto in acqua fredda per una decina di minuti: in questo modo gli ossi assorbono quell'acqua che poi restituiranno arricchita dei loro preziosi umori (l'avreste mai detto?)

Fate una dadolata di cipolla, carota e sedano e mettetela in una pirofila leggermente unta d'olio insieme alla "carne" e a qualche granello di pepe. Mettete tutto in forno a 160 gradi e lasciatecelo per un bel pezzo: deve quasi bruciare, si deve attaccare al fondo. Esatto, per una volta va fatto così, fidatevi!

Quando comincia a colorirsi per bene, cospargete con una manciata di farina, aspettate che colorisca anche quella, dopodichè innaffiate con il bicchiere di vino. Brindo alla tua, bestia immonda! Lasciate tutto a restringere finchè non sarà rimasto quasi nulla sul fondo, anzi nulla, solo della farina rattrappita, poi, con gran soddisfazione, levate tutto dal forno. Ne è passato di tempo, eh? Beh: non siamo neanche a metà.

Versate tutto, ma proprio tutto in una pentola. Con "tutto" intendo dire che dovete raschiare i grumi nerastri che eventualmente si sono tenacemente attaccati alla pirofila. Che la vostra fede non vacilli: lo giuro, anche loro, anzi: soprattutto loro. Bisogna saper aspettare. Se volete essere del tutto sicuri che neanche un po' si succo di avanzi di cadaveri venga sprecato, sciacquate la pirofila con dell'acqua tiepida e versate questa nella pentola. Coprite la carne con dell'acqua, aggiungete le vostre spezie preferite, un poco di concentrato di pomodoro, poco sale grosso (poco poco: pensate che l'acqua dovrà scendere della metà...) e mettete tutto sul fornellino della moka a fuoco inesistente, scoperchiato.

A questo punto, dovrebbe metterci tutta la giornata a restringersi circa della metà. Quando questo miracolo accadrà, filtrate tutto usando uno straccio bagnato (c'è sempre una prima volta): se lo straccio ha le maglie molto sottili non sarà impresa molto facile: probabilmente vi toccherà lavorare di muscoli serbando goccia a goccia il prezioso liquido che riuscirete a cavare, con frustrante lentezza, dal vostro straccio ripieno che starete strizzando con tutte le vostre forze. Fermatevi pure un secondo per riposare, poi rimettete il fondo bruno sul fuoco, questa volta a fuoco alto, tanto ormai il più è fatto.

Fate restringere ulteriormente, poi quando vi sarete veramente rotti di fare andare il gas tutto il santo giorno e la densità della salsa vi soddisfa, potete spegnere il fuoco definitivamente. Dovreste metterla a questo punto al fresco per un'oretta, di modo che il grasso, che scoprirete essere veramente abbondante, si addensi in superficie e possa essere tolto con facilità. Se la vostra intenzione è quella di usare la salsa per guarnire un filetto alla Wellington omicida, però, potete lasciare il grasso dov'è, a maggiore garanzia dell'occlusione circolatoria.

Se necessario (ma ne dubito, se avete aspettato abbastanza) è possibile addensare il fondo bruno fino al livello di densità da voi vagheggiato utilizzando la fecola di patate. Si fa così: sciogliete con cura la fecola in un poco di acqua fredda, magari usando un frustino, dopodichè versate molto delicatamente l'acqua nella pentola, sempre accompagnando con il frustino, poco alla volta, per potervi fermare nel caso addensi troppo. Non fatevi fregare proprio adesso: se la fecola non si amalgama avrete buttato via una giornata e parecchi euro di gas. Se avete paura o non avete mai addensato alcunché con la fecola, fatevi aiutare da un adulto. In nessun caso, mai, versate la fecola direttamente nella pentola. Se avete intenzione di fare della "salsa Madera" non addensate affatto.

Tale estratto concentratissimo di cadaveri si può conservare in frigo o in freezer, in bottiglia o a cubetti, è l'ideale per accompagnare arrosti, brasati, stufati, spezzatini, qualsiasi altro piatto a base di carne ma anche come condimento sulla pasta, sul risotto giallo, ovunque vogliate, anche sul panettone. Un cuoco che conosco, per esempio, lo usa come ingrediente segreto dello strudel (ed è buono!). Provate con il muesli alla mattina. Aggiunto di vino Madeira, panna e limone si trasforma nella fantomatica "Salsa Madera", ideale, per esempio, come accompagnamento per il già citato Filetto alla Wellington.

Buon appetito!

2.12.07

Intermezzo letterario: L'abbuffone

Vorrei parlarvi di un libro a me molto prezioso, che ben si presta ad essere recensito su questo spazio, e che ho letto e riletto più volte trasformandolo da lettura ricreativa a vera e propria musa ispiratrice, come già accadde per il caposaldo Artusi, a suo tempo reo di avermi iniziato all'arte di mangiar bene.

Trattasi del volumetto "L'abbuffone - Storie da ridere e ricette da morire" che, già dal titolo, dovrebbe illuminarvi sulla provenienza dell'ispirazione vagamente macabra con cui spesso mi approccio ai fornelli. Ma ancor più interessante è invece l'autore e soprattutto il contenuto di tale libello: parliamo infatti di Ugo Tognazzi, celebre attore e regista gloria del cinema nostrano dei suoi tempi (secondo me) d'oro, e della sua non altrettanto celebre personalità di cuoco e gourmet.

Nella fattispecie, il libro riprende nel titolo l'episodio che sembrò segnare un punto d'incontro irripetibile nelle anime del Tognazzi uomo-attore-cuoco: ovvero la sua partecipazione al film "La grande abbuffata" di Ferreri, capolavoro del cinema gastronomico in cui, molti ricorderanno, quattro mostri sacri del cinema europeo (oltre a Tognazzi: Mastroianni, Piccoli, e il recentemente compianto Noiret) si rinchiudono in una villa nel centro di Parigi e mangiano... fino alla morte.

Non intendo soffermarmi in questa sede sulla pellicola (che come del resto facilmente potete intuire, giudico un capolavoro assoluto e le cui tematiche mi stanno particolarmente a cuore) se non per anticiparvi che, all'interno del libro in questione, possiamo trovare in un'apposita sezione proprio le ricette delle portate che porteranno alla morte, uno ad uno, i quattro protagonisti.

Già da solo la presenza di tale "ricettario mortale" rappresenterebbe per me un vero tesoro, ed in effetti in ciò consiste parte dell'attrattiva pubblicitaria del volume (a ciò si riferisce il "ricette da morire" del titolo) ma, per fortuna, il libro non si riduce a questo: infatti contiene altre due interessanti sezioni, entrambe incentrate naturalmente sul tema culinario, prontamente pubblicizzate dalle parole: "storie da ridere"

Nella prima di queste due parti, la più narrativa, possiamo leggere una serie di divertenti racconti autobiografici in cui Tognazzi rivive momenti salienti della propria vita alla luce di un piatto particolare, di cui alla fine di ogni capitolo ci viene prontemente fornita la ricetta. L'escamotage è intrigante, e Tognazzi è un affabulatore efficace: non è necessario essere ossessionati come il sottoscritto dalla cucina per aprezzare queste pagine che, per inciso, rivelano anche un talento innegabile come scrittore comico. Inoltre, per coloro i quali siano interessati alla figura di Ugo nella sfera privata, offre molteplici aneddoti (veri?) sulla base dei quali ri-costruire la figura immaginaria del Tognazzi scapestrato, rubacuori e birbante di cui, a quanto pare, l'autore stesso non doveva affatto vergognarsi.

La seconda parte rappresenta invece un ricettario vero e proprio: si tratta di una cinquantina di ricette selezionate tra quelle personali di Tognazzi, scritte da lui stesso. Questo particolare è più significativo di quanto sembri poiché ogni ricetta è pervasa da un umorismo, un ironia ogni volta diversa, con continue frecciate al lettore, spesse volte sarcastici fin dai titoli (come il risotto "longobardo", milanese non ortodosso, o le costine "alla Mao", ovvero in agrodolce) e devo dire che facilmente la lettura di tali ricette potrà risultare la parte più esilarante dell'intero libro.

Oltre al fattore umoristico, va detto che l'efficacia di tali ricette non è in discussione: fatti i debiti distinguo soprattutto riguardo a certe opinioni culinarie dell'autore non sempre condivisibili (Tognazzi, per esempio, avrebbe messo il dado dappertutto, ma d'altronde era anche figlio del suo tempo...), si ha la certezza di trovarsi di fronte ad un uomo di una cultura gastronomica decisamente invidiabile, e di un cuoco estremamente capace a cui, fattore da non sottovalutare, non manca certo il senso dell'umorismo.

Come appendice, troviamo una serie di fotografie che ritraggono l'autore alle prese con fornelli, pignatte etc... utili per lo più per sviluppare nel lettore invidia nei confronti dell'orto, della conigliera, della cucina e della dispensa di Tognazzi.

Insomma, una lettura consigliatissima che non potrà non entusiasmare tutti coloro che, leggendo queso blog, lo trovano interessante, e gradiscono sentire parlare di cibo (e di morte, anche, perché no?) con sacrosanta ironia.

Stufato alla Dahmer

Dedico il mio metodo di fare lo stufato al celebre "Cannibale di Milwaukee", per la sua capacità (dello stufato) di ammorbidire e rendere delizoso qualsiasi taglio di carne.
A patto di avere un week-end libero.

Ingredienti: (x 6 persone)

  • Un kilogrammo di polpa di carne "qualsiasi" (manzo, facciamo)
  • Burro 50 gr.
  • Pancetta 50 gr.
  • Una carota
  • Una cipolla
  • Una costa di sedano
  • Uno spicchio d'aglio
  • Tre chiodi di garofano
  • Noce moscata
  • Vino rosso 1/2 lt.
  • Farina
  • Sale e pepe

Esecuzione:

Il giorno stesso in cui avrete sezionato la vittima, scegliete un bel pezzo di polpa magra da un kilo circa e mettetela a bagno nel vino con la carota, il sedano e la cipolla tagliati a fettine. Aggiungete l'aglio pestato, i chiodi di garofano, la noce moscata grattugiata e lasciate in infuso tutta la notte, o tutto il pomeriggio se avete fretta.

Dopo essere tornati dal vostro solito giro di locali gay con un nuovo amichetto, imbavagliatelo, legatelo ad una sedia e proseguite con la preparazione dello stufato: mettete sul fuoco una casseruola capiente (possibilmente di coccio) con la pancetta sminuzzata (avrete un buon coltello in casa, sono sicuro!) , il burro e la cipolla tritata e fate rosolare bene. Indi, sgocciolate accuratamente il "manzo", rotolatelo nella farina e fatelo scottare da tutte le parti a fuoco piuttosto vivace.

Filtrate il vino dell'infusione e rovesciatelo sul "manzo". Abbassate il fuoco al minimo, salate e pepate, incoperchiate e godetevi la compagnia del vostro nuovo amico per un 5/6 ore, ricordandovi di girare lo stufato un paio di volte.

Ops! Il nuovo amichetto si è rotto. Pazienza. Andiamo allo stufato: il sugo dovrebbe essere assai ristretto. Se non lo fosse (ma è strano), per "barare" e ottenere un restringimento artificiale potrete aggiungere un cucchiaino di fecola di patate preventivamente sciolto in una tazzina d'acqua. Cuocete ancora un po', affinché la fecola non si senta. A questo punto lo stufato è pronto, da accompagnare con patate bollite, purea o polenta, ma io vi consiglio di mangiarlo il giorno dopo, filtrando con una schiumarola il grasso che affiorerà sulla superficie del sugo.

Dopotutto, il giorno dopo è probabile che abbiate trovato un nuovo amichetto con cui mangiarlo.

Buon appetito!

Zuppa del soldato

Come abbiamo già visto, le zuppe ben si prestano a temi di miseria, affanno, tempi bui. Questa che vi presento, soprattutto, è stata trovata su di un libello di "ricette di guerra", di quelli diffusi durante il quindici/diciotto, contenente ricette atte a sfamare più gente possibile con il massimo dell'economia.
Purtroppo, da molti anni noi in Italia non conosciamo la guerra, la fame vera, la miseria. Non si sa mai che tornino quei tempi così che possiate aprezzare tale pietanza con rigore filologico.

Due sono le considerazioni "serie" su questo gioiello di cucina povera: la prima è che può davvero sfamare un reggimento con meno di un euro di spesa (anche grazie alla sua virtù di poter essere allungata pressoché all'infinito); la seconda è che - sorprendentemente - è davvero squisita.

INGREDIENTI: (da 1 a n+1 persone)

  • Farina 100 gr.
  • Tre cucchiai di olio di oliva
  • Tre patate

Esecuzione:

Dopo esservi procurati, in qualsiasi modo, gli ingredienti, trovate un anfratto al riparo dai bombardamenti e procedete come segue.
Mettete la farina nella pentola, o nell'elmetto, e accendete il fuoco piuttosto basso continuando a mescolare finchè non raggiunge un bel colore di autocarro incendiato.
Aggiungete l'olio (che per noi contemporanei dovrebbe essere extravergine, ma per questa versione storica diamo per scontato sia olio da motori) e mescolate fino ad ottenere una crema di un color kaki molto militaresco, della densità di una trincea sotto il diluvio.
Aggiungete quindi l'acqua, o aspettate che piova, fino ad ottenere una cremosità... "media". qui l'occhio del soldato italiano non può e non deve sbagliare.
Pelate le patate, tagliatele a dadini e tuffatele nella zuppa. Il vero soldato si mangia anche le bucce.
Quando le patate saranno morbide la zuppa sarà pronta, attenzione solo a non rivelare la vostra posizione al cecchino nemico con i vapori della preparazione.

Ottimo e abbondante!

1.12.07

Filetto alla Wellington omicida

Si tratta di una mia personale versione del celeberrimo piatto. E' omicida perché, con una piccola aggiustatina all'apporto di colesterolo, ho fatto in modo che risulti fatale a chiunque abbia una anche trascurabilissima cardiopatia. Resta, a mio avviso, uno dei piatti più buoni del mondo, a patto di rimanere vivi per raccontarlo.

(Per assicurare il risultato letale, è consigliato raddoppiare le dosi degli ingredienti contrassegnati da un asterisco)

Ingredienti: (x 6 / 8 persone)

  • Un filetto di manzo da circa 1 kg
  • Lardo 100 gr. *
  • Uno spicchio d'aglio
  • Patè di fegato d'oca 250 gr. *
  • Funghi champignons 300 gr.
  • Prosciutto crudo 100 gr. *
  • Prosciutto cotto 100 gr. *
  • Salsa tartufata 100 gr. *
  • Un uovo
  • Un rametto di rosmarino
  • Olio extravergine di oliva
  • Una sfoglia di pasta sfoglia

Esecuzione:

Se non avete già subìto un infarto al conto del macellaio, è già qualcosa. Avvolgete bene il filetto nel lardo intrappolando dentro qualche ramoscello di rosmarino e legatelo con uno spago. Dovreste provare la vostra prima extra-sistole.

Ungete bene di olio una teglia, poneteci sopra il prezioso filetto e schiaffatelo in un forno che sarà già bello rovente, sui 150 gradi celsius. Intanto prendete i funghi, puliti per carità, fateci un giro di frullatore e soffriggete tutto con olio e uno spicchio d'aglio fino ad ottenere una specie di purea densa.

Dopo circa mezz'ora togliete il filetto, liberatelo dal lardo (che potete mangiare, per portarvi avanti sul programma colesterolico) e lasciatelo raffreddare. Scegliete voi cosa fare mentre il filetto si raffredda, è però vietato ogni tipo di attività fisica. Potreste guardate la tv.

Adesso arriva il bello: stendete la pasta sfoglia sul tavolo e adagiateci sopra bene ordinate le fette di cotto, poi quelle di crudo, infine la purea di funghi, e poi il vostro filettone che avrete tutto spalmato di abbondante patè di fegato e salsa tartufata. Leggero, eh? Ponete la medesima serie di ingredienti sulla sommità del filetto dopodichè sigillate questa bomba ad orologeria creando un enorme involtone assassino delle arterie e spennellate tutto l'esterno di uovo. Con la pasta sfoglia avanzata è un classico fare delle decorazioni: per restare in tema potreste disegnare dei cuoricini. Ricordatevi di praticare un paio di fori sulla sfoglia, per fare uscire il vapore che si forma all'interno. Potreste bucare proprio i cuoricini, con chiaro riferimento all'infarto imminente.

Mettete tutto nel forno finché la crosta non diventerà marrone. Tagliatelo a fette non sottili usando con estrema accortezza un coltello ben affilato, accompagnato con della salsa Madera.

Fate testamento, quindi mettetevi a tavola. Buon appetito.

Zuppa del condannato a morte

Di solito le zuppe sono più buone il giorno dopo. Questa invece va mangiata appena fatta perché... muore.
Ideale quindi per tutti quelli che non hanno un domani.


Ingredienti: (x 4 persone)

  • Un gambo di sedano
  • Una carota
  • Una cipolla
  • Uno scalogno (facoltativo)
  • Poco zenzero grattugiato
  • Uno spicchio d'aglio
  • Due patate
  • 50 grammi di pancetta
  • 150 gr. di fagioli cannellini secchi
  • Un quarto di cavolo rosso, di quelli per l'insalata (sarà lui il boia della zuppa)
  • Olio extravergine d'oliva
  • Noce moscata
  • Sale e pepe
  • Pane raffermo

Esecuzione:

La sera prima dell'esecuzione, mettete a bagno i fagioli in un po' di acqua tiepida con una foglia di alloro e uno spicchio d'aglio. Scolateli il giorno fatidico.

Ora, fatevi coraggio e tritate con la carota il sedano, lo scalogno e la cipolla. Già si comincia a piangere per il destino di questa zuppa. Tritate anche la pancetta.
Mettete il trito in una pentola assieme alle patate a dadini e ai due cucchiai di olio di oliva, accendete il rogo a fuoco basso pregando sommessamente.
Decapitate il cavolo fatale e sminuzzatene il cadavere a fette sottili. Aggiungete la salma nella pentola.
Quando all'interno vi sarà solo sfrigolìo e stridore di denti, aggiungete l'acqua, i fagioli, salate e pepate, nocemoscate, zenzerograttugiate, fatevi il segno della croce e incoperchiate pietosamente.

Nel frattempo, per ingannare l'atroce attesa, strofinate lievemente d'aglio il pane raffermo, poi riducetelo a pezzi e fatelo saltare in padella a fuoco vivace con abbondante olio extravergine d'oliva.
Quando i fagioli non saranno più duri, ma prima che si suicidino, prendete circa metà della zuppa e passatela, lasciando qualche fagiolo, carota e sedano a gemere nell'acqua che, nel frattempo, si sarà tinta di un nero disgraziatamente cupo.

Qui dovreste rendervi fatalmente conto della luttuosità della zuppa: infatti, a cagione del cavolo galeotto, otterrete una passata di un viola intenso, funereo, cimiteriale. Dato che il cavolo rosso tende molto anche ad addolcire la zuppa, assaggiatela: se parvi troppo dolce passate più fagioli e patate, che aggiusteranno con il loro sapore. Riversate il passato nella zuppa.

Abbassate drasticamente il fuoco, affinchè la zuppa non tenti di uccidersi prima dell'esecuzione, e cuocete ancora per un paio di minuti. Dopodichè, con gesti tristemente solenni, versate il tutto in una capace zuppiera, sacrificandovi i crostini di pane.

Nel mangiare, non potrete non notare un dettaglio particolarmente funesto della zuppa: mano a mano che si raffredderà, la zuppa morirà, e cambierà colore passando dal viola funebre ad un cadaverico, tristo e desolante grigio. Quindi, per quei fortunati che potranno desinare anche il giorno a venire, varrà da
memento mori, subdolo monito del destino ineluttabile che ci attende tutti.

Buon appetito.


Fusilli allo Yogurt Balsamico

Se la vostra sensibilità vi impedisce di nuocere a creature indifese, allora provate questo piatto: prevede lo sterminio di miliardi e miliardi di creature viventi ignare del proprio atroce destino.


Ingredienti: (x4 persone)

  • Uno spicchio d'aglio
  • Una manciata di prezzemolo
  • Due o tre foglie di basilico
  • Un pugno di pinoli
  • Due cucchiai di olio extra vergine di oliva
  • Parmigiano Reggiano o Grana Padano, gr.100
  • Yogurt INTERO (non magro, non crema di yogurt) gr.200
  • Un bicchierino di brandy o di whisky
  • Aceto balsamico di Modena
  • Sale e pepe
  • Fusilli o altra pasta corta gr.360

Esecuzione:

Togliete lo Yogurt dal frigo, prima di tutto, controllando che la data sulla confezione si collochi nel futuro, e mettete la pentola sul fuoco.
Mentre i fermenti lattici vivi si riprendono dall'eterno inverno a cui li avevate condannati, tritate le erbe, l'aglio e i pinoli tutti insieme più finemente che potete.

Con piglio dittatoriale, deportate i fermenti lattici all'interno di una capiente bacinella con tutto il loro yogurtoso habitat, e cercate di seppellirli spietatamente con detto trito.
Saranno ancora vivi, gli ingrati. Meglio stordirli innaffiandoli con il bicchierino di brandy, o di whisky, o grappa o qualsiasi cosa usiate per sbronzarvi. Niente, si muovono ancora. Soffocateli con l'olio di oliva. Macchè, bastardi.... Tentate il tutto per tutto con il formaggio allora: grattugiatelo sopra le loro microscopiche testoline sghignazzando sadicamente. "NOOO!! Aiutooooo!! Pietààà!!!": saranno ormai agonizzanti, quindi concedete loro il colpo di grazia mescolando con un mestolo di legno. Badate bene di mescolarli alla nuca, per assicurarsi che nessuno scampi al massacro. Salate e pepate quella che ormai è diventata la loro fossa comune.

Bolle la pentola? Allora salatela e buttate i fusilli, che purtroppo non soffriranno.
Quando i fusilli saranno al dente, versateli nella bacinella tombale dei fermenti e mischiate bene.
Ponete nei piatti di portata e guarnitene il bordo con un filo di aceto balsamico, in cui scarpetterete di quando in quando qualche fusillo.

Buon genocidio.